Il Mozambico nella morsa della “maledizione delle risorse”

Il Mozambico nella morsa della “maledizione delle risorse”

© foto di Gianpaolo Galileo Rama

Conoscerete oramai la campagna Vivila in 3D. A chi non sa di cosa si tratta si consiglia di leggere questo nostro articolo di presentazione del progetto e di visitare il sito della campagna per farsi un’idea. Di seguito invece vi proponiamo un’articolo concepito nell’ambito di questo progetto e dedicato al Mozambico. Marianna Malpaga – in servizio civile presso Vita Trentina e appassionata di giornalismo – dialoga con il professore Corrado Diamantini del Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale e Meccanica dell’Università degli Studi di Trento e collaboratore del CAM riguardo alla “maledizione delle risorse in Mozambico”.

 

Abbiamo scelto di parlare del conflitto di Cabo Delgado perché, oltre ad essere un tema di stringente attualità, ci consente di presentare alcuni concetti chiave che emergeranno nella prima fase della campagna di sensibilizzazione Vivila in 3D, dedicata alla “lettura delle etichette”. Possiamo leggere le etichette dei prodotti quando compriamo qualcosa al supermercato, ma possiamo anche iniziare a “leggere le etichette” in senso lato, domandandoci ad esempio da dove viene ciò che consumiamo quotidianamente (o che potremmo consumare in futuro).

A Cabo Delgado, infatti, c’è il gas naturale e ci sono delle multinazionali che lo estraggono. Questa, come ci ha spiegato il professore dell’Università di Trento Corrado Diamantini, non è l’unica causa del conflitto, ma è certamente un elemento che acuisce l’insoddisfazione della popolazione locale, e che di conseguenza alimenta la guerra.

Oltre al conflitto di Cabo Delgado, è l’intero stato dell’arte delle politiche di sviluppo in Mozambico che ci consente di affrontare concetti chiave per la cooperazione internazionale, lo sviluppo e la sostenibilità: il land grabbing e la maledizione delle risorse.

Cabo Delgado, “l’eldorado del gas” al centro del conflitto 

A inizio marzo, Amnesty International pubblicava un report con un titolo piuttosto eloquente: What I saw is death, “Quello che ho visto è la morte”. Il documento si riferisce a quanto sta avvenendo nel Nord-est del Mozambico, precisamente nella provincia di Cabo Delgado, dove è in corso un conflitto che vede contrapporsi un gruppo jihadista che i locali chiamano Machababos, da al-Shabaab (in somalo “la gioventù”), e le milizie nazionali e private – a cominciare dalla sudafricana Dyck Advisory Group – assoldate dal governo mozambicano per far fronte all’insorgere dell’estremismo islamico.

Il Mozambico assurge raramente agli “onori” della cronaca, fatta eccezione per le catastrofi naturali che l’hanno colpito negli ultimi anni, primi fra tutti, nel 2019, i cicloni Idai e Kenneth. Il secondo, in particolare, si è abbattuto a fine aprile proprio nella provincia di Cabo Delgado.

Il 24 marzo, racconta Antonio Tiua in un articolo apparso sul giornale mozambicano “O Pais”, Palma era una città “praticamente deserta”. L’ultimo attacco documentato di al-Shabaab, durato dieci giorni, ha avuto come epicentro proprio questa cittadina del Nord-est del Mozambico, e ha costretto molti dei suoi abitanti a rifugiarsi a Pemba, capoluogo della provincia di Cabo Delgado. Palma, come hanno confermato le forze di difesa governative, è stata poi abbandonata dai jihadisti. Questa incursione, però, è solamente l’ultimo episodio di un conflitto che si protrae dall’ottobre del 2017, quando al-Shabaab condusse per la prima volta un attacco a Mocimboa da Praia.

È un caso che le rivendicazioni del gruppo jihadista locale, che non ha niente a che vedere con la formazione somala al-Shabaab, si concentrino in una provincia che l’organizzazione non governativa francese Les amis de la Terre ha definito l’eldorado gazier, cioè “l’eldorado del gas”? Il Mozambico è un Paese ricco di materie prime con un’economia che è cresciuta nello scorso decennio a ritmi elevatissimi. Eppure, nel 2019 l’indice di sviluppo umano (HDI in inglese), che aggrega gli indicatori su aspettativa di vita, istruzione e reddito pro capite, non superava lo 0,456, lasciando il Paese al 181° posto di una classifica che comprende i 193 Paesi membri delle Nazioni Unite.

Uno scenario complesso: i fattori in gioco

Le circostanze descritte fino ad ora potrebbero portare a una lettura semplificata del contesto, che però non corrisponde alla realtà: il conflitto ha molteplici cause, e non può essere ricondotto alla sola presenza di importanti giacimenti di gas naturale e di altre risorse naturali a Cabo Delgado. Le cause della guerra in atto a Cabo Delgado non sono direttamente riconducibili all’estrazione di gas naturale, cui partecipano la Francia, con Total,  l’Italia, con Eni, e  gli Stati Uniti con Exxon Mobil. Ciò non vuol dire che la “questione delle risorse” non vi rientri. Ne parliamo con Corrado Diamantini, professore dell’Università di Trento e membro della cattedra Unesco in Ingegneria per lo sviluppo umano e sostenibile della stessa Università. Il professore, che è stato a più riprese in Mozambico, collabora con il Consorzio Associazioni con il Mozambico, che ha sede a Trento e a Beira (provincia di Sofala Mozambico), e conosce bene i luoghi in cui sono in corso gli scontri.

Diamantini suggerisce di staccarci per un attimo da ciò che sta avvenendo a Cabo Delgado e di guardare alla terra, la risorsa più preziosa per un Paese che vive di agricoltura, che in Mozambico è oggetto di accaparramento da parte di molti investitori esteri (land grabbing) con il concorso dello stesso governo. Un riferimento tra i tanti è costituito dal progetto ProSavana, frutto di un accordo stipulato nel 2010 tra Maputo, Tokyo e Brasilia, che permetterà a imprese giapponesi e brasiliane di sostituire la produzione familiare tipica dell’agricoltura mozambicana con monocolture intensive di soia. Con un “piccolo” inconveniente: gran parte della popolazione che abita quelle terre sarà costretta ad andarsene. In questo caso, però, come spiega Diamantini “la risposta non è violenta, ma consiste nella mobilitazione popolare e nell’azione delle organizzazioni contadine”. “Quindi – prosegue il professore – non si può stabilire un rapporto diretto di causa ed effetto tra sfruttamento delle risorse, tra cui quelle presenti a Cabo Delgado, e il conflitto in atto, altrimenti saremmo in presenza di una guerra generalizzata in tutto il Mozambico, a partire dalla provincia di Gaza, a sud, dove i cinesi estraggono terre rare pesanti, fino a Moatize, a ovest, dove i brasiliani estraggono carbone”.

Il conflitto di Cabo Delgado, che ha provocato sinora più di 2.500 morti e 700 mila sfollati, va ricondotto, secondo il professore, a tre fattori che agiscono in modo sinergico.

Il radicalismo islamico fa breccia lungo la costa mozambicana

Alessandro Vivaldi, in un articolo apparso su “Africa Rivista”, parla d’insurgency (“insurrezione”), più che di terrorismo, per definire quanto sta avvenendo nel Nord del Mozambico. Il primo attacco di al-Shabaab è avvenuto il 5 ottobre 2017, quando un gruppo di trenta uomini ha preso d’assalto la cittadina di Mocimboa da Praia, non lontana dal confine con la Tanzania. In realtà, la radicalizzazione del gruppo di giovani musulmani è avvenuta anni prima.

Il primo fattore del conflitto in atto a Cabo Delgado, come ci spiega Diamantini, è proprio “la radicalizzazione di un gruppo di giovani musulmani appartenenti a una minoranza della popolazione di Cabo Delgado, i Mwani”. “I Mwani vivono lungo la costa e nelle isole, praticano la pesca e il commercio risalendo l’Oceano Indiano con piccole imbarcazioni tradizionali, i dau”, prosegue Diamantini. “Parlano, oltre a kimwani, il kiswahili, ossia la lingua franca della costa orientale africana. Sono musulmani: da bambini frequentano più le madrasse che le scuole statali. Questo per dire che si tratta di una popolazione che è da sempre in contatto con altri Paesi, come la Tanzania e il Kenya. Se poi si tiene presente il traffico illegale di avorio, di rubini e di eroina, che, come è noto, proviene dall’Afghanistan, raggiunge l’Iran e da lì arriva a Cabo Delgado per poi proseguire per Durban e l’Europa, si ha l’idea di una regione piuttosto permeabile.

Da qui la facilità con cui hanno fatto il loro ingresso le idee fondamentaliste di cui si ha notizia ancora prima della scoperta delle risorse a Cabo Delgado. La fondazione di una setta, a cui partecipano tra l’altro anche figure provenienti dalla Tanzania e da altri Paesi africani, risale al 2007. Solo negli anni successivi questa setta, dopo l’addestramento locale e l’indottrinamento religioso all’estero di alcuni aderenti, si trasforma in un gruppo armato, facendo successivamente proseliti anche in altre zone del nord e del centro del Paese”.

Gli obiettivi militari di al-Shabaab, all’avvio delle operazioni, si trovano proprio lungo la costa, “in centri che sono abitati perlopiù da Mwani, come Mocimboa da Praia, Monjane e Mucojo”, spiega Diamantini. “Al-Shabaab si muove come se in questi assalti avesse avuto degli scopi premeditati: in primo luogo l’eliminazione di leader civili e religiosi. Infatti vengono uccisi religiosi musulmani e viene bruciato il Corano, perché si vuole mettere in discussione il modo con cui si pratica la religione, in nome dell’interpretazione autentica del Corano: non per nulla viene riportato che l’invocazione più frequente durante gli assalti è proprio ‘Sunnah’, ossia il codice di comportamento religioso. Solo successivamente compaiono il richiamo alla Jihad e alla creazione di uno stato autonomo”.

C’è quindi un primo elemento che ha poco a che vedere con le risorse e con l’eldorado teatro degli scontri tra il gruppo di al-Shabaab e le milizie assoldate dal governo mozambicano: “è la scelta di giovani che anche altrove hanno abbracciato l’estremismo, indipendentemente dalle proprie condizioni economiche e da quelle della popolazione in mezzo alla quale vivono”, afferma Diamantini. “Quando penso alla versione mozambicana di al-Shabaab, quello che mi viene in mente è Boko Haram in Nigeria”. Anche Eric Morier-Genoud, ricercatore della Queen’s University di Belfast che studia la storia dell’Africa lusofona, ha usato questo paragone per descrivere il movimento estremista mozambicano.

Se è vero che le risorse presenti a Cabo Delgado non sono la causa scatenante del conflitto in corso, è necessario ricordare che la questione delle risorse non scompare ma, anzi, riemerge con forza. “Al-Shabaab non acquista certo credito tra la popolazione provocando centinaia di migliaia di sfollati e morti indiscriminate”, dice il professore. “Quindi com’è che questo gruppo trova il consenso e si alimenta? E qui veniamo alla questione delle risorse, il secondo fattore in gioco”.

Le risorse tra epoca coloniale e ricostruzione post-guerra civile

“Uno dei primi gruppi a raggiungere al-Shabaab, ancora prima dell’assalto a Mocimboa da Praia del 2017, è quello formato da alcuni garimpeiros, i cercatori che estraggono abusivamente i rubini”, spiega Diamantini. “I garimpeiros erano stati attaccati da milizie private assoldate dalla Montepuez Ruby Mining, che ha in concessione la miniera di Cabo Delgado. Come è documentato, in seguito all’attacco i cercatori di rubini entrano nelle fila di al-Shabaab, nome con cui vengono chiamati i Machambabos”.

Molte delle risorse che giacciono in Mozambico sono state scoperte solo in anni recenti. Alcune, però, erano conosciute già durante il periodo coloniale: il carbone delle miniere di Moatize e l’acqua dei fiumi che attraversano il Paese, tra cui lo Zambesi. Ma non vengono sfruttate. “Fino al 1942, il Portogallo delega la gestione di gran parte della colonia a compagnie concessionarie private, soprattutto a capitale inglese”, racconta il professore. “In cambio di cosa? Delle imposte pagate dalle compagnie, le quali a loro volta si rifanno con gli interessi sulla popolazione africana. In pratica, il Portogallo cede la propria sovranità sulla colonia e ne ha in vantaggio proventi sicuri, oltre al fatto di non dover investire capitali. È esattamente quello che fa oggi il governo mozambicano quando, ad esempio, dà in concessione le miniere di carbone alla Vale, uno dei più grandi gruppi minerari del mondo, oppure i giacimenti di gas alle compagnie petrolifere. Gli investitori dispongono a tutti gli effetti delle risorse, il governo mozambicano, senza fare alcun investimento, ha in cambio i proventi dell’atto di concessione. Ma il problema non è tanto questo, quanto l’uso che viene fatto di questi proventi oltre che la delega delle scelte di sviluppo a investitori privati”.

Il governo portoghese, nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, si limita a realizzare il collegamento ferroviario tra il giacimento minerario di Moatize e la linea ferroviaria che congiungeva Beira con il Nyassaland (oggi Malawi) e, assieme al Sudafrica, la diga di Cahora Bassa.

Lo sfruttamento delle risorse ha inizio anni più tardi, dopo l’indipendenza, con alcuni antefatti. “Nel 1984 il governo mozambicano si accorda con il Fondo Monetario Internazionale e con la Banca Mondiale per una ‘liberalizzazione’ dell’economia”, racconta Diamantini. “Teniamo presente che il Frelimo, il partito al governo, aveva optato per il marxismo-leninismo, e quindi per un’economia controllata dallo Stato. Questo accordo prelude al cambiamento che avviene nel 1989, quando il Frelimo rinuncia esplicitamente all’opzione marxista-leninista”. Un’altra tappa che apre allo sfruttamento delle risorse è l’ingresso del Mozambico nella Comunità di Sviluppo dell’Africa Australe nel 1999, “ovviamente – come ci spiega Diamantini – in funzione della riabilitazione delle infrastrutture di trasporto che erano andate distrutte durante la guerra”. Infrastrutture che da un lato garantiscono al Sud Africa l’accesso al porto di Maputo e dall’altro permettono di avviare lo sfruttamento delle miniere di carbone.

La scoperta dei rubini a Montepuez, del gas a Palma e della grafite a Ancuabe, tutte località situate nella provincia di Cabo Delgado, è successiva. “Non sono molto convinto, però, che questi giovani estremisti avessero consapevolezza di tutte queste cose”, aggiunge il professore. “Certamente sapevano dell’espulsione dalla terra nei giacimenti di Montepuez e avevano sotto gli occhi i cambiamenti che stavano investendo Palma e il sottostante promontorio di Afungi dove a un certo punto la Total avvia i lavori per la realizzazione della Cidade do gas”.

“Ma una cosa è evidente – continua il professore – se teniamo presenti da un lato la povertà della popolazione, le disuguaglianze sociali e la corruzione dilagante, e dall’altro l’arricchimento di pochi e la creazione di strutture moderne ed efficienti destinate però ad attività in cui la popolazione locale non trova spazio, non possiamo sorprenderci del senso di esclusione e del risentimento contro il governo, così come del fatto che questo stato di cose diventi una leva per il reclutamento, da parte di al-Shabaab, di giovani ai quali, come ha affermato il vescovo di Pemba, è negato il futuro”.

Ed è proprio contro il partito di governo, il Frelimo, che al-Shabaab lancia di continuo le proprie invettive.

“Maledizione delle risorse” in Mozambico

Lo sfruttamento delle risorse da parte di terzi non riguarda solo ed esclusivamente Cabo Delgado, ma abbraccia purtroppo tutto il Mozambico. A quello delle risorse naturali e della terra si aggiunge anche lo sfruttamento intensivo delle foreste, il cui legname è destinato in gran parte alla Cina.

“La domanda che, giunti a questo punto, ci dobbiamo porre è: a favore di chi interviene lo sfruttamento delle risorse?”, si chiede Diamantini. “Innanzitutto a favore delle stesse compagnie concessionarie, poi a favore delle élite che governano il Paese. I proventi, soprattutto in tasse, dell’estrazione dei minerali, della produzione elettrica, del land grabbing e della stessa produzione industriale – si pensi alla Mozal, il grande impianto di alluminio che opera vicino alla capitale – rimangono in larga parte a Maputo, dove alimentano oltre alle élite la crescita di un ceto medio che non è presente in altre città. Non vengono di certo impiegati per attivare politiche credibili di sviluppo per l’insieme del Paese”.

Qui entra in gioco un concetto che gli economisti chiamano resource curse (“maledizione delle risorse”). “La maledizione delle risorse fa riferimento proprio a questo stato di cose – chiarisce il professore – che possiamo riassumere così: se la presenza di grandi risorse e di un enorme potenziale di ricchezza torna a vantaggio di pochi e non riesce a tradursi in politiche di sviluppo rivolte all’insieme della popolazione – soprattutto a causa della corruzione e del malgoverno – si ingenerano disuguaglianze tali da produrre una perenne situazione di instabilità che alimenta i conflitti”.

Come appalta le risorse, il governo mozambicano “ha appaltato” anche la gestione del conflitto

Nell’affrontare il conflitto, il governo mozambicano sta replicando lo stesso schema che utilizza per gestire le risorse. Oltre alle forze governative, la FADM (Forze Armate del Mozambico) e la UIR (Unità di Intervento Rapido), per combattere contro al-Shabaab e per difendere i siti dove vengono estratte le risorse il governo mozambicano ha assoldato alcune compagnie militari private, prima fra tutte la Dick Advisory Group, fondata dal colonnello sudafricano Lyonel Dick. La sola risposta militare, per di più affidata a truppe speciali se non a mercenari, è secondo il professore il terzo fattore che agisce nel conflitto di Cabo Delgado.

Entrambe le parti – forze governative e chi per loro da un lato e gruppo estremista dall’altro – violano il diritto internazionale umanitario, il quale sancisce che in un conflitto armato i civili non possono mai essere oggetto d’attacco. “All’inizio del conflitto le truppe governative  hanno colpito indiscriminatamente tutti coloro che si professano musulmani, perché accomunati ad al-Shabaab”, spiega Diamantini. “Questo nonostante la presa di distanza delle autorità religiose musulmane. Ciò ha spinto altri giovani a unirsi ad al-Shabaab. Quanto ai mercenari che combattono per conto del governo, è provato che mentre utilizzavano gli elicotteri in attacchi contro i jihadisti hanno sparato sulla popolazione civile con cui questi ultimi si erano mescolati. Dall’altra parte ci sono i crimini che commettono di continuo i jihadisti, in cui ritroviamo il campionario cui ci hanno abituato in questi anni le cronache,  comprese le decapitazioni e il rapimento delle donne e di giovani adolescenti. Insomma, una spirale infernale”. Uccisioni e violenze indiscriminate che concorrono all’esasperazione di un conflitto la cui soluzione è affidata, al momento, esclusivamente alle armi.

Conclusione

Riepiloghiamo quindi le tre concause del conflitto mozambicano indicate dal professor Diamantini.

La prima è la radicalizzazione di alcuni giovani musulmani che hanno formato un gruppo jihadista che i locali chiamano Machababos, dal somalo al-Shabaab (“la gioventù”). Si tratta soprattutto di Mwani, una popolazione di Cabo Delgado dedita al commercio costiero e quindi in contatto da sempre con il mondo musulmano. Questa radicalizzazione è intervenuta con la presenza, a Cabo Delgado, di estremisti islamici provenienti soprattutto dalla Tanzania. Viene riportato che tuttora nella leadership di al-Shabaab sono presenti tanzaniani e altri stranieri. Non ha trovato però riscontro l’affiliazione di al-Shabaab allo Stato Islamico, anche se appare evidente che la prosecuzione del conflitto potrebbe spingere a questo connubio.

La seconda, invece, è il modo con cui il governo mozambicano gestisce – o meglio, non gestiscele risorse, appaltando a grandi investitori stranieri il loro utilizzo. Il governo mozambicano, in tutto ciò, accumula le tasse pagate dai concessionari. Questi proventi vengono ripartiti privilegiando pochi gruppi sociali. Questo mantiene il Paese e in particolare le province di Niassa, Nampula e Cabo Delgado in uno stato di povertà in cui soprattutto i giovani non ravvedono un futuro, diventando preda della propaganda jihadista.

La terza e ultima causa è la violenza con cui viene gestito il conflitto di Cabo Delgado, che non risparmia neppure la popolazione. Una violenza che, come avviene con la gestione delle risorse, viene anche appaltata. Alle due fazioni in campo, al-Shabaab e le milizie governative, si aggiungono infatti i mercenari pagati dal governo mozambicano e dalle compagnie private assoldate per difendere i giacimenti di minerali e per debellare l’estremismo islamico. La violenza indiscriminata, che si iscrive in una risposta esclusivamente militare ai jihadisti, finisce con l’esacerbare la popolazione spingendo alcuni, fosse solo in cambio di cibo, vestiario e soldi, a schierarsi con il campo jihadista.

Per concludere, affrontiamo una questione legata al land grabbing  che però riguarda da vicino il tema delle risorse. “C’è un’obiezione ricorrente, a fronte delle critiche all’accaparramento della terra, ed è: Vogliamo continuare ad alimentare l’agricoltura familiare quando questa non ci porta fuori dalla povertà?”, spiega Diamantini. “Quindi perché non sostituire l’agricoltura familiare con un’agricoltura intensiva, che produce più reddito?”.

Ricordiamo che l’aumento del Prodotto interno lordo non garantisce da solo la sostenibilità economica, la quale a sua volta non può essere disgiunta da quella sociale e ambientale. Il PIL in tal senso è un pessimo indicatore: servono anche politiche credibili di sviluppo e di redistribuzione delle risorse. “Se tutto si svolgesse altrove e in un’altra epoca, l’obiezione alla quale ho fatto riferimento potrebbe avere un fondamento. In fondo è quello che è accaduto in Europa e in altre parti del mondo. Ma in tanti Paesi africani, oggi, l’espulsione dalla terra non è compensata da un posto di lavoro in fabbrica, come accadeva in Inghilterra durante la rivoluzione industriale. Non è compensata da nulla, tanto meno da politiche pubbliche che consentano l’ingresso in altri settori dell’economia. Non è compensata neppure da altra terra, visto che nei casi che abbiamo sotto gli occhi ai contadini viene riassegnata terra non fertile”, conclude Corrado Diamantini. “Alle politiche pubbliche è strettamente legata anche la questione delle risorse. Per i rubini, il gas e tutte le altre risorse presenti in Mozambico, si coinvolga pure una grande impresa nel loro sfruttamento, visto che sa come farlo e ha i capitali per farlo. Ma senza farne un soggetto extraterritoriale che compie a piacimento scelte, legate allo sviluppo, che coinvolgono poi i luoghi di vita, le infrastrutture e l’ambiente. E poi si vincoli la concessione alla realizzazione di progetti rivolti a migliorare sostanzialmente le condizioni di vita delle popolazioni locali oltre che all’esborso di oneri fiscali commisurati ai guadagni. Per costruire finalmente, con questi proventi, le basi per lo sviluppo di un Paese che, mentre combatteva il colonialismo, sognava di conquistare  dignità e  benessere”.

Bibliografia

Amnesty International, What I saw is death. War crimes in Mozambique’s forgotten cape, Amnesty International 2021

Les Amis de la Terre France, De l’Eldorado Gazier au Chaos. Quand la France pousse le Mozambique dans la piège du gaz, Juin 2020

Observatorio do Meio Rural, Caracterização E Organização Social Dos Machababos A Partir Dos Discursos De Mulheres Raptadas, aprile 2021

Marco Di Liddo e Elisa Sguaitamatti, I primi attacchi di matrice jihadista in Mozambico, Centro Studi Internazionali, 21 dicembre 2017

Cabo Delgado. Emergenza sfollati, Medici con l’Africa Cuamm, 18 marzo 2021

Marina Forti, La “maledizione delle risorse” che piega il Mozambico, Altreconomia, 1 dicembre 2020

Sandro Pintus, Giacimenti di gas nel nord del Mozambico sono una bomba ecologica a tempo, Africa ExPress, 24 giugno 2020

Joseph Cotterill, Il Mozambico si affida ai mercenari nella lotta contro i jihadisti, Financial Times (ripreso da “Internazionale”), 19 marzo 2021

Bambini ferocemente assassinati in Mozambico, Save The Children, 16 marzo 2021

Matteo Savi, Mozambico: il boom delle risorse e i suoi rischi, Lo Spiegone, 1 febbraio 2019

UNDP, Human Development Report 2019, 2019, New York (hdr.undp.org/sites/default/files/hdr2019.pdf)

Desculpe, nao falo muito portugues

Desculpe, nao falo muito portugues

Pubblichiamo la testimonianza, fresca e coinvolgente, che ci arriva dalle studentesse Ada Castellucci e Valentina Caminati, da poco arrivate a Beira per lavorare alle loro tesi di laurea. Potete inoltre seguire il loro divertente “Instagram blog” Tesiste per Caso.

O que você acha da Beira?” “Desculpe, nao falo muito portugues”

Solo oggi, dopo 15 giorni dal nostro arrivo qui in Mozambico, abbiamo imparato a capire e a rispondere a questa domanda, “Che ne pensi di Beira?”. E mica ancora l’abbiamo capito bene cosa ne pensiamo, 15 giorni sono pochi per farsi un’idea di una città così lontana da casa, dalle proprie tradizioni e abitudini, che ha perfino delle stelle diverse da quelle che si vedono da noi!

Sicuramente la prima impressione è forte. Il caldo quasi soffocante e l’umidità opprimente sono la primissima sensazione scendendo dall’aereo, e per un attimo quasi tolgono il fiato. La strada dall’aeroporto alla sede del CAM è la seconda grande rivelazione. Si arrivava da un Italia con il coprifuoco, che si apprestava a diventare zona rossa; potete immaginare come sia stato vedere così tante persone in giro di notte! Passiamo una prima nottata angosciante, con porte che sbattono e si aprono da sole, convinte che da un momento all’altro sarebbe entrato qualcuno a rapirci o derubarci, per poi scoprire che si trattava solo del vento della tempesta.

I giorni dopo, i primi passi nel nostro quartiere, Ponta Gea, nel cuore di una Beira illuminata da un sole caldissimo. I primi “Bom dia!”, i primi viaggi in chopela, le apecar locali di servizio taxi, i primi aperitivi in spiaggia con Marica dopo giornate di intenso lavoro, le prime gite nei mercati. Conosciamo lo staff del CAM, gentilissimo e altamente preparato per rispondere a qualsiasi nostra domanda. Si lavora bene, si trovano i momenti di svago la sera e nei weekend, si comincia a capire come muoversi da sole in città. Tutto come in un sogno che, finalmente, dopo circa sei mesi di rinvio per problemi di visto legati al Covid, si avverava. Non una cosa avrebbe potuto buttarci giù di morale, pensavamo.

Povere illuse. Iniziano da subito gli incontri ravvicinati del terzo tipo con dei mostri nella nostra cucina: le blatte. Tipico animale da compagnia africano, la blatta non fa assolutamente nulla, ma a prima vista provoca ribrezzo. I primi giorni imparare a sconfiggerle non è facile, ma piano piano impariamo a comprare l’insetticida giusto e ad armarci di “savatta” per schiacciarle. Dopo 4 giorni, il Wi-Fi decide di non andare più e ci accorgiamo – sventurate – che i documenti sul Drive hanno anche dei difetti: richiedono rete. Un sabato più caldo del solito ci sorprende particolarmente, e al Wi-Fi non funzionante si aggiungono la corrente e l’acqua. Il caldo è soffocante e la doccia non funziona. “Perché siamo qui Vale, perché? Chi ce l’ha fatto fare?”

Già, perché siamo qui? Studiando la situazione della gestione dei rifiuti in contesti a basso reddito, nel corso offerto dal professor Ragazzi dell’Università di Trento abbiamo scelto di trattare questa tematica per la nostra tesi di laurea magistrale in Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio, e così abbiamo preso contatti con Isacco Rama, direttore del CAM. Siamo quindi venute a conoscenza dell’interessante programma chiamato LIMPAMOZ (Limpamos Mozambique, puliamo il Mozambico) del CAM a Beira il quale tratta, tra le altre, due tematiche che subito ci hanno affascinato. Il programma è promosso con Progettomondo e l’amministrazione del municipio di Beira. E’ così che è cominciata la nostra avventura a fine luglio 2020, con una serie di chiamate Skype con Isacco, per decidere bene come e dove inserirci.

Nel frattempo, entriamo a far parte del programma TALETE, Honours Programme dell’Università di Trento, che ha supportato il nostro progetto di ricerca all’estero fin dall’inizio e ci sostiene in questa esperienza!

Ada si occuperà della gestione dei rifiuti solidi ospedalieri del Centro de Saude de Ponta-Gea, un piccolo ospedale di fronte alla sede del CAM. L’obiettivo del suo lavoro è quello di migliorare il sistema di raccolta differenziata esistente dell’ospedale, anche in previsione dell’arrivo di un nuovo macchinario per lo smaltimento finale del rifiuto. È in spedizione, infatti, una sterilizzatrice meccanica dell’azienda Newster, che alleggerirà il carico dell’inceneritore dell’Hospital Central da Beira, impianto, quest’ultimo, che rappresenta tutto ciò che un ingegnere ambientale non vorrebbe mai vedere nella sua carriera.

Valentina si occuperà invece della gestione dei rifiuti organici provenienti in particolare dal settore della ristorazione e da due grandi e importanti mercati della città: il Mercado de Maquinino e il Mercado de Goto. Il CAM ha un progetto riguardante un centro di compostaggio per il trattamento del rifiuto organico del mercato di Maquinino, già dimensionato ma ancora da realizzare. Vale penserà ad un’eventuale amplificazione della matrice in ingresso, aggiungendo l’organico di Goto e dei locali addetti alla ristorazione, a cui vorrebbe somministrare questionari per capire le loro opinioni sul progetto.

Queste sono le nostre motivazioni, questo è quello che ad ogni goccia di sudore ci spinge ad uscire per fare foto ad immense casse di rifiuto putrescente, che ad ogni blatta ci fa pensare a quella storiella del battito d’ali di una farfalla, che anche un piccolo cambiamento ne innesta tanti a catena, che ogni volta che salta internet che ricorda che c’è bisogno di uscire e sporcarsi le mani, se davvero vogliamo lasciare questo mondo un po’ migliore di come lo abbiamo trovato.

Boa sorte para nós!

Una proposta progettuale in una prospettiva di resilienza: il quartiere Macuti a Beira

Una proposta progettuale in una prospettiva di resilienza: il quartiere Macuti a Beira

In questo articolo le studentesse Roberta Giusti e Susanna Ottaviani del Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale dell’Università di Trento hanno sintetizzato per noi la proposta progettuale realizzata nell’ambito del corso di Progettazione Integrata dell’Ambiente e degli Insediamenti tenuto dal professor Corrado Diamantini, all’interno del quale il CAM collabora dal 2017.

Obiettivo dell’esercitazione era proporre delle soluzioni alle criticità emerse a Beira in uno scenario di post emergenza conseguente al ciclone Idai. Oggetto dello studio, basato sui materiali e le informazioni per l’analisi di contesto fornite dal CAM, è il quartiere Macuti, uno dei più colpiti dai cicloni Idai ed Eloise.

La proposta, ancora embrionale, contiene alcune indicazioni interessanti che ci si augura vengano riprese da lavori successivi in modo da essere presentate alla Municipalità.

Il Mozambico è particolarmente sensibile ad eventi meteorici estremi, emblematici il ciclone Idai del marzo 2019 e il più recente ciclone Eloise. Sempre più spesso accade che i cicloni che si formano nell’Oceano Indiano entrino nel canale del Mozambico portando sulla lunga regione costiera pesanti e prolungate piogge, che riattivano le piane alluvionali createsi nel corso dei secoli dai nove grandi fiumi, tra cui lo Zambesi, che attraversano il Paese. La morfologia prettamente pianeggiante acuisce ulteriormente la vulnerabilità del territorio.

La città di Beira, in particolare, sorgendo in corrispondenza della foce del fiume Pungwe è stata duramente colpita dal ciclone Idai. Essa si estende su una zona costiera sabbiosa posizionata ad una quota altimetrica più elevata e su un entroterra costituito da terreno limo-argilloso che rende particolarmente difficoltoso il drenaggio dell’acqua.

 

IL QUARTIERE MACUTI

(Fonte: Beira Municipal Recovery and Resilience Plan)

L’esercitazione progettuale si è concentrata sul quartiere di Macuti a Beira, che dopo l’indipendenza del Mozambico ha conosciuto una notevole crescita demografica, la quale, tuttavia, non si è tradotta in un equilibrato sviluppo delle infrastrutture. Accanto all’impianto coloniale portoghese, infatti, si sono creati in maniera non pianificata diversi insediamenti spontanei detti comunemente informali. Se l’impianto urbanistico originale è costituito da un reticolo stradale geometrico, da edifici in muratura serviti da rete acquedottistica e fognaria, i quartieri informali appaiono ben differenti. La parte spontanea del quartiere in particolare, frutto di un processo di densificazione incontrollata che volge alla completa saturazione del suolo, presenta abitazioni costruite con materiali di risulta ed è completamente sprovvista di servizi così come di infrastrutture. La viabilità è diretta conseguenza di una distribuzione non pianificata delle costruzioni e pertanto subisce continue modifiche. Le strade sono sconnesse e impraticabili da mezzi pesanti atti a servizi di emergenza e alla raccolta dei rifiuti, i quali comunemente vengono scaricati nei canali di drenaggio ostruendoli. La rete di allontanamento delle acque meteoriche di Macuti è costituita da un canale principale, che separa l’insediamento informale dal quartiere di Chota, posto subito a nord, e da due secondari che vi confluiscono. L’intero sistema di drenaggio inoltre risente di forte stress quando il livello dell’oceano sale, impossibilitando lo scarico delle acque raccolte. Ciò comporta allagamenti e ristagni, conseguenti a piogge prolungate, che uniti alla mancanza di una rete fognaria favoriscono la diffusione di malattie.

   

LE PROPOSTE

E’ in questo contesto che sono state proposte delle soluzioni basate sul principio di resilienza capaci insieme di incrementare la capacità di contenimento e deflusso delle acque e di avviare il miglioramento delle condizioni economiche e sociali del quartiere informale, a partire dalla creazione di un asse di collegamento nord-sud tra il quartiere di Chota e la parte formale di Macuti. Vista l’alta densità di edifici, la mancanza di servizi e di aree verdi, si è individuata anche la necessità di creare degli spazi pubblici multifunzionali per facilitare la socialità. A tal proposito un ruolo centrale è stato ricoperto dalle infrastrutture verdi.

Aree d’interesse

Il primo luogo d’intervento, è la zona ai lati del canale principale e di quelli secondari, nella quale si propone la collocazione di una zona dedicata ai servizi. Al suo interno si snoda una percorso ciclabile che prosegue costeggiando i lati del canale principale. L’intera superficie sarà in prospettiva coperta da vegetazione. La presenza di alberi permette di creare zone ombreggiate che diventano luoghi di aggregazione, inoltre regola l’umidità al suolo, mitiga le ondate di calore e fornisce uno schermo all’inquinamento acustico. La realizzazione del percorso ciclabile lungo il canale interviene concomitantemente alla riqualificazione degli argini, per sgombrarli dai rifiuti e dagli arbusti che ostacolano il deflusso dell’acqua causando allagamenti.

Poiché la zona è soggetta a lunghi periodi di ristagno dell’acqua, accanto ai canali si sono predisposte delle grandi vasche di raccolta dell’acqua, il cui duplice obiettivo è di mitigare gli effetti delle piene e conseguentemente di limitare, oltre che i danni alle abitazioni, anche la proliferazione di agenti patogeni. Le aree individuate per la collocazione delle vasche sono attualmente zone degradate poste in leggera depressione, in cui vengono accumulati i rifiuti. Si prevedono pertanto dei punti di raccolta di tali rifiuti. Le vasche di raccolta dell’acqua poste nell’area verde di progetto e nelle zone limitrofe assumono la forma di canali comunicanti di ridotte dimensioni che in periodi piovosi possono essere attraversati da semplici camminamenti. Vasche e canali diventano occasione per la piantumazione di alberi in modo tale da trasformare un’area di maggior degrado in uno spazio frequentabile.

La seconda area d’intervento, che si trova in una posizione centrale all’ interno dell’area informale, prevede l‘inserimento di un mercato. Attualmente gli unici servizi commerciali sono collocati nella zona formale e pertanto sono poco accessibili ai residenti dell’insediamento spontaneo. In questo scenario si ritiene essenziale promuovere lo street trade, garantendogli uno spazio adeguato e stabile. Sono frequenti infatti le dinamiche di privatizzazione dello spazio pubblico il quale viene sottratto al commercio informale. Quest’ultimo è tuttavia una risorsa economica importante, non solo per l’offerta di lavoro, ma soprattutto per la vasta quantità di beni e servizi a basso costo che vi si trovano. Per la costruzione del mercato si prevede una struttura in muratura con pavimentazione rialzata e dotata di copertura. Al suo interno si collocano diversi stand mentre all’esterno si prevedono punti per la raccolta dei rifiuti e un’area adibita a parcheggio. Allo scopo di favorire la socialità anche in quest’area è previsto l’inserimento di zone alberate.

Come ultimo intervento si propone la creazione di un’area multifunzionale. Come per il primo intervento, questa nasce dalla necessità di creare uno spazio di condivisione, che possa servire i residenti dell’area ed essere anche un’attrattiva per gli abitanti della zona formale del quartiere. All’interno dell’area si collocano una zona attrezzata comprensiva di un campo da calcio, una zona per il commercio e un’altra per l’aggregazione. L’intera superficie alberata inoltre è attraversata da un percorso ciclabile.

Aree d’intervento

Si specifica che trattandosi di un’esercitazione, questa manca di un tratto essenziale della progettazione urbanistica, ovvero del confronto con la popolazione. Un approccio partecipativo permetterebbe di individuare con maggiore precisione le necessità legate al contesto, ma soprattutto innescherebbe delle dinamiche di coinvolgimento degli abitanti, considerate essenziali nelle fasi attuative dei progetti così come per la manutenzione futura delle opere proposte. Le idee emerse vogliono essere un punto di partenza e di riflessione per approfondimenti futuri che abbiano come obiettivo condiviso il miglioramento della sicurezza e delle condizioni di vita della popolazione di questo quartiere, pur mantenendone i tratti caratteristici che lo contraddistinguono.

Roberta Giusti e Susanna Ottaviani
Trento, gennaio 2021

Lavorare con i rifiuti – il settimanale Savana racconta il nostro progetto a Beira

Lavorare con i rifiuti – il settimanale Savana racconta il nostro progetto a Beira

A inizio anno, il settimanale mozambicano Savana ha dedicato un ampio e bell’articolo al progetto del CAM nel settore dei rifiuti solidi urbani a Beira. A firmarlo il direttore Fernando Lima, amico del CAM sin dal suo viaggio a Trento nel 2017, ospite in occasione dell’evento “Mozambico Presente e Futuro”.
Al momento in cui è stato pubblicato l’articolo, la città era stata da poco colpita dal ciclone Chalane, che aveva causato danni, minori però rispetto al successivo ciclone Eloise del 23 gennaio.
Sul ciclone Eloise rimandiamo a questo articolo, sul ciclone Idai, il devastante evento di marzo 2019, al dossier che raccoglie tutto il materiale.

La gente di Beira ha trascorso questa settimana attendendo il Ciclone Chalane, ma continua a gestire gli effetti devastanti di Idai. Daviz Simango, il sindaco, e i suoi partner stanno cercando di “portare avanti la barca” soprattutto nella lotta contro il “mostro” di spazzatura che i tecnici chiamano “RSU” (Rifiuti Solidi Urbani). La costruzione di una discarica, così come il bacino di ritenzione delle acque piovane dell’Alto da Manga, è ancora un miraggio, ma un impianto di compostaggio (trasformazione dei rifiuti organici) è qualcosa che incoraggia Daviz e i suoi soci di Trento, una città storica del nord Italia da cui proviene Mario Raffaelli, una vecchia conoscenza dei mozambicani. SAVANA è andata a Munhava Matope per vedere cosa si fa dentro e la discarica e grazie ad essa.

Durban è il “nome di guerra” di Mario Antonio Katunde, vinto in altre battaglie nella prigione centrale di Beira, dove ha passato “alcuni mesi senza accusa”. La sua guerra è ormai la spazzatura, più concretamente la sua trasformazione in compost, nel mezzo della discarica di Munhava Matope, un quartiere di diseredati alla periferia della città di Beira. Durban è nato e cresciuto in città, ma i suoi genitori venivano da Mutarara in Tete.
Durban accompagna la separazione dei rifiuti e la gestione di un processo che richiede 4-5 mesi per rendere il composto ricco di azoto, fosfati e potassio. “La spazzatura più ricca è quella organica che si genera nei mercati”, spiega Flore Roura, agronomo adottato da Beira dove ha creato il progetto Terra Nova. Per chi conosce l’odore degli avanzi marci dei mercati, il composto è un granulato praticamente inodore.

Quest’anno, Durban e i suoi compagni hanno prodotto 130 tonnellate di fertilizzante ma sono riusciti a vendere solo il 25% del prodotto. Un sacco da 25 kg costa 120 meticais. In assenza di clienti con potere d’acquisto, Terranova lavora con associazioni di produttori agricoli “a cui vende a un prezzo sovvenzionato”. Al confine della discarica risaie a perdita d’occhio. Nelle terre inondate arriva anche il “mussopo”, un pesce che viene pescato con delle gabbie, una proteina preziosa nei quartieri poveri di Beira.
Durban comanda un piccolo esercito di 37 ex disoccupati di Munhava Matope, un nome che è anche fonte di paura, visto l’alto livello di microcriminalità nella zona generato dalla disoccupazione. Dato che il compost è ancora nel campo del politicamente corretto, Terra Nova raccoglie rifiuti presso i privati e ha già fatto un’incursione nel riciclaggio della plastica per la produzione di pavimentazioni e l’uso dei rifiuti delle latrine per migliorare il compost. La plastica è l’attività del progetto/società 3R (Reducing, Recycling, Reusing) che lavora al lato della discarica. Come a Maputo, schiacciano contenitori e altri tipi di plastica e poi esportano il materiale compattato.

Il ruolo del CAM

Quelle che sembrano piccole isole di imprenditorialità in mezzo alla discarica erano nel caos durante il post-Idai. Il CAM (Consorzio Associazioni con il Mozambico) ha mobilitato fondi per la “riqualificazione” della discarica, la costruzione di discariche e strade di accesso per la circolazione dei camion. L’UNDP e la Cooperazione Italiana “fanno la loro parte”, erogano le somme per la realizzazione dei progetti quando i contributi comunitari non sono sufficienti per l’entità delle sfide.

Beira produce 536 tonnellate di RS (rifiuti solidi) al giorno, ma la struttura ha la capacità di rimuovere solo 199 tonnellate. Non c’è una spiegazione formale di come si risolve il deficit, ma i responsabili del CAM ritengono che un impianto di compostaggio possa essere una soluzione per la città, così come a Nampula dove pure lavorano. E siccome nulla accade senza fondi, il CAM gestisce progetti come “small is beatiful” (piccolo è bello). Nel quartiere Maquinino, vicino al mercato locale, si fa “educazione ambientale” e raccolta differenziata. Ci sono bidoni per i rifiuti organici, di plastica e di carta. E ci sono “attivisti dell’immondizia” che cercano di mobilitare gli utenti del mercato tramite un nuovo motto che va di moda: applicare le migliori pratiche. “E’ un esperienza pilota”, spiega Helder Domingos del CAM.

Nell’ospedale centrale di Beira è stato costruito un nuovo camino per l’inceneritore di rifiuti bio-medici, mentre il progetto di inceneritore rifiuti per tutta la città, da posizionarsi a Inhamizua, non procede. Il vecchio inceneritore tratta ogni giorno 400 chili di siringhe ed aghi usati e i “residui biologici” della chirurgia. Il fumo nero che esce dall’ospedale è un incubo per i residenti della classe media di Macuti.

Nel quartiere di Chingussura, accanto alla storica Missione di S. Benedito a Manga, con i finanziamenti di ricostruzione post-idai è stato creato un nuovo sistema di drenaggio e fornitura di acqua potabile. Una benedizione per le decine di nascite che avvengono ogni giorno nel centro sanitario pubblico. Il tutto mentre il grande progetto della discarica e dell’impianto di compostaggio non arriva.

Fernando Lima

Traduzione a cura di Marika Sottile – qui sotto l’articolo originale

 

Il mare si sta alzando, il clima sta cambiando: le lezioni apprese dal terribile ciclone Idai in Mozambico

Il mare si sta alzando, il clima sta cambiando: le lezioni apprese dal terribile ciclone Idai in Mozambico

** Il racconto che segue è stato tradotto da un articolo di Sally Williams del giornale The Guardian **

** anche le immagini sono tratte dallo stesso articolo**


L’albero aveva retto al centro del quartiere per quasi 100 anni. Era stato piantato dal padre di Alfolso Reis, prima che costui nascesse. Il padre aveva lavorato come autista e “amava gli alberi”, dice Reis, che adesso ha 70 anni.  Le persone erano solite mangiare gli amari frutti rossi dell’albero e, recentemente, lo stesso aveva iniziato a fornire ombra agli ambulanti dell’affollato mercato della città di Beira, una delle più grandi città del Mozambico. “Mi piaceva sedermi sotto i suoi rami” dice Fina, di 21 anni, che vende pomodori, cocomeri, cipolle e aglio per le vie caotiche della città. Altri ambulanti vendono banane, arance o vestiti di seconda mano.

Si aveva la sensazione che la vita potesse cambiare ma che gli alberi sarebbero rimasti costanti nel tempo. Poi qualcosa di strano è accaduto. Circa alle 14 del 14 marzo del 2019, l’albero improvvisamente si schiantò a terra. Nessun ferito ma le persone sono state colte di sorpresa. “C’era solo un leggero vento” disse Fina. “Chi avrebbe mai pensato che un albero di quella taglia sarebbe caduto così?

Sette ore dopo, il più terribile ciclone della storia dell’Africa del sud ha colpito il Mozambico, avanzando nell’entroterra prima di proseguire per lo Zimbabwe e il Malawi. Il ciclone Idai ha ucciso più di 1000 persone e ha devastato Beira, una crescente città portuale di 500.000 persone, costruita su un delta che sfocia nel Canale del Mozambico, sulla costa est dell’Africa. In un primo momento si è alzato il vento con raffiche che hanno raggiunto i 200 km all’ora, abbastanza fortI da far volare via tetti, piatti, sedie, gatti e cani e aerei. La puzza degli animali putrefatti scagliati sugli alberi è aleggiata per giorni.

Poi sono arrivati giorni di forte piogge e, infine, l’alluvione. Beira è situata alla foce di due grandi fiumi, il Buzi e il Pungwe; entrambi hanno straripato, sommergendo i villaggi circostanti, intrappolando le persone sui tetti e creando un nuovo lago grande quanto il Lussemburgo. Centinaia di alberi sono stati sradicati e almeno il 70% delle costruzioni urbane sono state severamente danneggiate, molte di cui hanno perso i tetti; 6 scuole e 60 chiese sono state totalmente distrutte. Le strade sono diventate inaccessibili e l’aeroporto è stato chiuso. I supermercati hanno rapidamente finito il cibo. Il pane e l’acqua sono stati razionati. Più di 146.000 persone hanno perso le loro case nelle quattro province più colpite.

Quasi due anni dopo, il Mozambico sta cercando di ricostituire. Ma stiamo vivendo un periodo in cui i disastri naturali aumentano: estrema siccità, inondazioni epiche, incendi apocalittici. Vedremo sempre più frequentemente catastrofi, come Idai, colpire stati che potrebbero non essere pronti ad affrontarli? Quanta colpa ha il clima? Cosa possono fare gli stati benestanti per aiutare i paesi più vulnerabili?

Ho incontrato Rita Chiramswuana, di 51 anni e Fatima Vasco Limo, di 45 anni, a febbraio, 11 mesi dopo il ciclone, in un’umida tenda del campo di Ndedja, che ospita 2.355 persone in 471 abitazioni ed è a due ore da Beira. Contadine di John Segredo, un vicino villaggio di 200 persone, hanno 16 bambini, incluso Zacaria, di 11 anni, adottato da Chiramswuana cinque anni fa, dopo che la madre prima, ed il padre poi, sono morti.

Chiramswuana è viva, con uno spirito scintillante. Le piacciono i gioielli, porta uno smalto blu e indossa un cappello da pescatore lavorato all’uncinetto. Vasco Limo è più tranquilla, più serena. Sono amiche da anni. “La nostra amicizia è così”. Chiramswuana dice, tenendo alzato l’indice. “Lei è il dito ed io l’unghia”.

Chiramswuana, suo marito e i nove bambini vivevano in un due piccole case nel villaggio. Vasco Limo e la sua famiglia avevano una sistemazione simile. Coltivavano il proprio cibo – cavolo, anacardi, mais, fagioli – avevano accesso all’acqua corrente nei dintorni e facevano abbastanza soldi da mandare i bambini a scuola (l’educazione è gratis fino al 10° grado, quando i bambini hanno 15 anni, ma i genitori pagano per i libri dal 8° grado). Potevano anche permettersi di comprare cose per la casa: sedie di plastica, padelle, forchette. Chiramswuana ha 20 anatre e 30 polli; Vasco Limo invece ha 15 polli e due capre, un segno di status elevato nel villaggio. Entrambi sognavano di avere una “vera casa” – di mattoni piuttosto che di fango e paglia – e una torcia. “E’ buio di notte. Ci sono serpenti e senza la luce non si vedono” dice Chiramswuana. Tutto sommato però erano soddisfatte.

C’erano già state tempeste nel villaggio, con forti venti e piogge intense; quando Vasco Limo ha sentito i vicini parlare del ciclone, ha pensato che potesse essere qualcosa di simile (il governo ha avvertito la popolazione tramite la radio ma lei non ne aveva una). Alle 6 di pomeriggio ha cucinato patate dolci e altre verdure per la sua famiglia. Quando il ciclone è iniziato alle 8 di sera, lei in casa con suo marito e i suoi figli più piccoli, di 10, 14 e 4 anni (gli altri erano in una casa vicina). C’erano anche le galline e le capre con lei.

Alle 21, il boato si è fatto sempre più forte. C’è stato un gran colpo. Il tetto è volato via, racconta. Sono stati tutta la notte seduti, con la casa aperta, senza un tetto. “Era molto buio. Ho abbracciato i miei figli a me”. Fuori era grigio e ha iniziato a piovere. Il vento era come un forte ventilatore, dice. “Drrrrrrr”. Altri raccontano che è stato come se il ciclone stesse salendo attraverso dal sottosuolo. Circa alle cinque del mattino, il vento si è fermato e Vasco Limo è andata fuori. “Vedevo case distrutte e persone morte”. Tra loro c’era Anna, una vicina di casa di 60 anni. “Poi ho sentito persone gridare ‘SocorroSocorro! Aiuto! Aiuto!’. Mio marito ha corso per vedere quale fosse il problema. Ha visto un enorme ammasso di acqua – un’inondazione – ed è ritornato indietro correndo. 

Vasco Limo e la sua famiglia sono riusciti a scappare dall’inondazione; hanno raggiunto la parte più elevata del villaggio, oltre la marea, prima che il villaggio si allagasse. Chiramswuana non ne ha avuto la possibilità. “Le persone cercavano di scappare ma la marea arrivava molto velocemente, era molto potente”, dice. Con l’acqua già fin sopra la vita, “l’unica cosa che si poteva fare era arrampicarsi su un albero” – Una persona saliva e poi tirava su le altre; le persone venivano passate da una all’altra”. Chiramswuana è stata l’ultima a uscire dall’acqua: lei e la sua famiglia sono rimasti su un albero di mango per 24 ore, con forti piogge, senza cibo, ma troppo scioccati per aver fame. Chiramswuana è rimasta seduta silenziosamente su un ramo con la figlia di otto anni sul grembo, un braccio attorno al tronco, e l’altro attorno alla figlia, cercando di non guardare la strage che si vedeva passare sotto l’albero. “Maiali, capre, galline e polli, casse, altoparlanti, DVD – anche persone spazzate via dall’acqua”.  Suo fratello ed il figlio più piccolo di cinque anni hanno trovato rifugio su un albero differente, che è stato sradicato. Il suo corpo è stato trovato coperto di sabbia due giorni dopo: il corpo del piccolo era a quattrocento metri dal suo. Quando Chiramswuana e Fatima si sono viste al campo quattro giorni dopo, si sono date un intenso abbraccio. Adesso Vasco Limo dice dell’albero di mango: “Questo è il mio Dio! Rendo grazie”.

Ma il loro villaggio è scomparso e non possono più tornare a casa. Vivono grazie agli aiuti umanitari in rifugi improvvisati. Hanno ricevuto dei semi ed un piccolo appezzamento di terra. Ma ci sono state forti piogge lo scorso gennaio, eventi disastrosi per persone che contavano sul loro primo racconto post-ciclone. “Le coltivazioni sono inutili” dice Vasco Limo. “Quando riuscivamo a mettere da parte dei risparmi, io e mio marito ci chiedevamo, “Cosa compriamo? un’anatra? Una gallina?” Stavo costruendo la mia vita. Non lo posso più fare. Tutto ciò che avevo è andato perso – tutto – in un battibaleno”. 

Oggi, Vasco Limo, Chiramswuana e all’incirca altre 2300 persone senza tetto vivono ancora nel campo. Devono fare la fila per gli aiuti, poiché il loro ultimo raccolto è stato un ulteriore disastro. “Il troppo caldo ha bruciato la coltivazione,” dice Ciramswuana. Ma i semi più recenti stanno crescendo bene” e ci sono mango che si possono già raccogliere.

Con il passare dei mesi, mi racconta Vasco Limo “le cose pian piano migliorano”; adesso ha i pannelli solari. Ma c’è una nuova paura: il covid-19. I tassi di contagio sono bassi in Mozambico, con circa 16.721 casi e 139 morti registrati in dicembre, ma c’è ancora poco screening, perciò è difficile sapere l’impatto reale del virus. Sebbene Ndedja sia Covid-free, c’è paura nel campo. Il ciclone ha causato 3,2 miliardi di dollari di danni, equivalenti al 22% del prodotto interno lordo nazionale o alla metà del bilancio pubblico annuale dello stato. Il governo è stato costretto a chiedere in prestito 118,2 milioni di dollari dal Fondo Monetario Internazionale per rispondere all’emergenza, aumentando il suo debito pubblico ad una rovinosa cifra di 14,78 miliardi.

Per le persone di Beira, il disastro sfida la logica. Molti sono caduti alle credenze dei loro antenati: secondo alcuni residenti il ciclone è stato creato da un dio o un demonio; i venti erano la “bestia che fischiava” e le inondazioni sono state causate da un “grande animale con sette teste”. Gli scienziati hanno una spiegazione diversa. Mentre il ruolo della crisi climatica nel ciclone Idai non è ancora pienamente compreso, gli esperti credono che ci siano legami con la crescente temperatura delle acque dell’Oceano Indiano. “Accadono sempre più frequentemente tempeste di alta intensità” dice Jennifer Fitchett, professoressa associata all’Università di Witwatersrand di Johannesburg, in Sudafrica.

Il ciclone Idai è stato seguito dal ciclone Kenneth, anche questo di categoria 4, che ha colpito il confine tra Mozambico e Tanzania sei settimane dopo (Due cicloni tropicali severi in una stagione è davvero insolito per il Canale del Mozambico). Solo la scorsa settimana, il 30 dicembre, Chalane, una potente tempesta tropicale, ha portato un’altra volta forti piogge e vento a Beira. L’occhio della tempesta è passato a nord della città, dove ha distrutto costruzioni e sollevato tetti, incluso quelli dell’Ospedale di Nhamatanda. Più di 26.000 abitazioni sono state colpite; 265 famiglie sono adesso in un alloggio temporaneo. “Non c’è assolutamente nessun dubbio sul fatto che quando c’è un ciclone tropicale (come Idai), in seguito, a causa del cambiamento climatico, le piogge sono più intense”, dice Friederike Otto, direttore dell’Istituto dei Cambiamenti Climatici, dell’Università di Oxford. “Inoltre, a causa dell’aumento del livello del mare, le risultanti inondazioni sono più frequenti rispetto a quanto sarebbero state senza cambiamenti climatici indotto dall’uomo”

Comunque, la severità dell’impatto del ciclone Idai è spiegabile meno dall’intensità della tempesta e più dal fatto che ha colpito una delle nazioni meno preparate ad affrontarla. A Beira ci sono numerose grandi ville e zone commerciali con alberature ampie lungo le strade, formalmente pianificate dai portoghesi durante l’occupazione coloniale (il Mozambico divenne indipendente nel 1975). Altrove, migliaia di persone vivono stipate insieme in abitazioni molto fragili. Il reddito medio è meno di tre dollari al giorno, a malapena sufficiente per comprare 2kg di zucchero e quattro pagnotte di pane. Il Grande Hotel, costruito nel 1955 per turisti bianchi benestanti del sud della Rhodesia (allora colonia britannica, ora indipendente, Zimbabwe) non è mai stato concluso, oggi è diventato un’enorme baraccopoli. Le persone vivono dentro di esso, dislocandosi perfino sulle scalinate a chiocciola, per avvantaggiarsi dell’ombra. Il più grande datore di lavoro in città è il porto. Aperto alla fine del 19° secolo, è un’importante punto di entrata per i beni in Mozambico e oltre. Il sud della Rhodesia fece di Beira il suo porto strategico negli anni ’30 del 900 e la sua eredità è ancora presente nei collegamenti ferroviari, stradali e nella presenza dei gasdotti. Ci sono alcuni business – finanza e microcredito – ma l’economia è largamente informale, gli uomini vanno a pesca e le donne vendono frutta, verdura e vestiti di seconda mano nei banchetti del mercato.

Daviz Simango è sindaco di Beira dal 2003. Nel 2014, si prese posizione di fronte ai donatori internazionali al lancio del Beira Master Plan per avvertire del danno causato dalla crisi climatica per una città che è appena sul livello del mare, con difese marine in decadenza e la scomparsa della cintura delle mangrovie che fornivano una protezione naturale contro le inondazioni costiere. Simango delinea un piano ambizioso per sostenere la resilienza di Beira entro il 2035, con un progetto di infrastrutture verdi che includono la piantumazione di 7.000 alberi ed il ripristino delle paludi di mangrovie. I danni causati dal ciclone stanno ora forzando Simango, il governo del Mozambico ed un entourage di esperti globali a farsi venire in mente soluzioni urgenti per quella che lui definisce “la città più vulnerabile del Mozambico”.

Ogni giorno vedo come il clima sta cambiando”. Dice Simango quando ci incontriamo. “Il mare si sta alzando e le onde sono più forti e più grandi.  Vedo come cambia la temperatura. Non è come prima”. Il ciclone Idai ha colpito proprio nel momento in cui gli stati occidentali stavano considerando di aiutare le nazioni più povere sul fronte del cambiamento climatico. Eppure alla Conferenza COP25 sul Cambiamento Climatico che si è svolta a Madrid nel dicembre 2019, i decisori politici hanno fallito nel concordare un meccanismo per le nazioni benestanti per fornire un’assistenza finanziaria. “Immagina una persona povera difronte ad un ristorante di lusso” dice Simango“Passi davanti a quella persona, entri nel ristorante e ordini del cibo. Quando hai finito di mangiare, vai fuori e dici alla persona povera, “paghi tu”.

Quando l’ho visitata, Beira aveva le sembianze di una città che aveva attraversato la guerra. Solo il 30% della città è stata ricostruita: 48 scuole sono senza tetto. “Quando piove, i bambini tornano a casa” dice Simango. “Non c’è scuola”. Il Mozambico non è andato in totale lockdown come gli altri stati, sebbene scuole, ristoranti e chiese abbiano chiuso dopo i primi casi a marzo. Oggi, lo stato sta ritornando lentamente alla vita normale. Gli abitanti di Beira sono stati più colpiti dal ciclone che dalla pandemia globale. L’ospedale centrale puzza di umido e ci sono macchie di acqua sui muri. Questo è il luogo in cui l’enormità del disastro è diventata subito evidente. I medici che già lavoravano in un sistema sotto-finanziato, hanno trattato 450 casi in tre giorni di fratture, ferite da contusione, lacerazioni da detriti, pelli buastre e dolori al petto causati da quasi annegamento. Anche adesso, l’unità intensiva neonatale è sommersa di macerie ed è inutilizzabile. “Dobbiamo prenderci cura dei bambini nell’unità pediatrica”, dice Boniface Rodrigues, un medico anziano e portavoce dell’ospedale, indicando quelle vite che potrebbero esser perse come risultato. “Stiamo facendo del nostro meglio, ma la cura neonatale non è come dovrebbe essere”. La sala operatoria è stata restaurata solo otto mesi dopo il ciclone.

Il club di vela sulla spiaggia Macuti di Beira è aperto quando lo visito, sebbene i visitatori possono sedere solo sul terrazzo e devono portarsi le proprie bevande. Il ristorante, la palestra esterna e il recinto della barca sono ancora in rovine. Netto Dezzimata, di 38 anni, una guardia di sicurezza che ha aiutato a evacuare il club dopo che il manager del ristorante ha letto degli avvertimenti sul ciclone online, racconta come è sopravvissuto quando il club è crollato attorno a lui. Ha passato la notte sotto un arco con le mani chiuse attorno ad un pilastro “Non riuscivo a vedere dove finiva il mare e dove iniziava la terra – tutto quello che vedevo era acqua – ma in quanto guardia di sicurezza, dovevo mantenere la mia posizione”.

The Golden Peacock, invece, è immacolato. Conosciuto anche come Chinatown, questo complesso recintato vicino l’aeroporto include un hotel a cinque stelle (con un ristorante cinese, una spa e un casino), case in affitto, negozi e un parco divertimenti per bambini. I pavoni – che si ritengono essere il primo degli uccelli importati in Mozambico – vagano tra i prati curati e le ninfee. Acquisito dall’AFECC, un’impresa cinese presente su larga scala con interessi che includono una miniera di diamanti in Zimbabwe e una miniera di smeraldo in Zambia, cosi come catene di Hotels e supermercato attraverso l’Africa, “The Golden Peacock” è popolare grazie al commercio cinese. Gli ospiti dell’hotel e delle case in affitto sono riusciti a resistere al ciclone nella lussuosa area della reception. Il danno – sebbene significativo, con tetti rotti in tutte le abitazioni – è stato riparato nel giro di un mese.

Circa 92.500 persone sono ancora senza tetto, vivono in rifugi improvvisati nei 71 campi post-cicloni nelle quattro province colpite.  La sfida adesso è trovare un nuovo modo di vivere.

Antonio Silvero Namangero, di 38 anni, era solito prendere quantità abbondanti di pesci con solo una canoa e una rete – dentici rossi, corvine, gamberetti, granchi e soprattutto cernie. “Potevi venderli per molti soldi” dice quando ci incontriamo.

Come molti uomini nell’affollato quartiere di Palmeiras 1 di Beira, Namangero era un pescatore, come lo era il padre. Vendeva la sua pesca ai ristoranti, proprietari di ville recintate ed al mercato. Perciò poteva mandare i suoi cinque figli a scuola e accrescere la sua attività. Con la sua prima canoa ha fatto abbastanza soldi da potersene comprare una seconda; una seconda canoa significava che poteva assumere due uomini. “Era una bella vita ed eravamo veramente felici” dice Namangero, il cui obiettivo era comprarsi una casa propria. Poi il ciclone ha distrutto la sua casa e le sue canoe, cosi come quelle di tutto gli altri pescatori. “Le persone ne hanno usato il legno per riscaldarsi” ricorda. Adesso si è sistemato nel campo Mandruzi, gestito dalle ONG Unicef, Care e Oxfam, ad un’ora di macchina da Beira. Qui, Namangero e sua moglie si stanno dedicando all’agricoltura, vista dalle ONG come una maniera pratica per ripristinare la loro indipendenza. I loro rifugi sono siti in un lotto di terra con piante magnifiche che sovrastano il figlio più piccolo: patate, meloni, mais e fagioli. Il caldo è brutale.

“Mi mancano gli uccelli, la brezza e le onde” dice Namangero. Di sera, ero solito incontrare i miei amici con i quali accendevamo il fuoco e friggevamo il pesce. Qui, c’è solo cavolo. Sto soffocandoprimo, perché non c’è cibo e non ci sono opzioni; secondo, perché c’è caldo e non si respira”. Chiedo se si vede come agricoltore o pescatore. “Come pescatore”, risponde.

Jose Joao Chimoio, di 37 anni, che sta vivendo anche lui nel campo, mi mostra un pesce che ha catturato durante una gita a Beira. “Volevo ricordare ai miei bambini che il loro padre era solito portare a casa pesci. Adesso non porta nulla”. L’obiettivo dei pescatori qui è fare abbastanza soldi nell’agricoltura per comprare una canoa che costa più di 200 € e ricominciare a vivere una vita normale”.

Ma l’agricoltura ha i suoi lati negativi. “Passi sei mesi a coltivare ma tutto finisce con sei sacchi di riso” dice Amadaeu Wilson Ibraim, di 40 anni. “E quei sei sacchi di riso non durano a lungo. Con la pesca, tu peschi, e poi puoi mangiare o vendere quello che peschi. È più immediato”.

Namangero, Chimoio e Ibraim si sono offerti di mostrarci la spiaggia dove le loro canoe sono state distrutte. Più tardi quel giorno, hanno preso un bus per Beira, e ci siamo incontrati difronte al mare. La prima cosa che hanno fatto è stata è correre in mare, completamente vestiti. Noi siamo rimasti in spiaggia a guardali saltare, nuotare e schizzare acqua. È stato il primo assaggio dell’oceano di Namangero dopo otto mesi. È fantastico” dice. “Mi sento come un uccello che vola”.

Non si può ancora permettere di comprare una nuova barca o di pescare reti, e neppure Ibraim e Chimoio possono. Questa è la ragione per cui vivono ancora al campo, cercando di coltivare cibo. “Molte persone stanno venendo a vivere qui perché qui non ci sono inondazioni e c’è l’elettricità” dice Namangero.

C’è poi un’altra sorpresa spiacevole. Visitiamo un’azienda agricola vicino Ndedja dove sono piantati mais, meloni e palme di banana. Guardiamo più da vicino e vediamo qualcosa muoversi – qualcosa di grande, giallo e nero. Le coltivazioni brulicano di locuste, a migliaia. “Soffriremo la fame nella mia famiglia”, dice Palmira Mussa, di 39 anni, che ha cinque bambini e gestisce l’azienda con suo marito, Gorge Adjapi, di 59 anni. Le locuste stanno già divorando gran parte dell’Etiopia, Kenya e Somalia e gli esperti credono che gli sciami siano un altro risultato del cambiamento climatico. “Il suolo è umido e le locuste amano gli ambienti umidi, perciò stanno riproducendosi molto a confronto con gli anni precedenti, dice Armando Zacaria, di 28 anni anni, di Kulima, una NGO locale che lavora con Oxfam per aiutare le comunità del campo a coltivare il cibo. Gli esperti hanno confermato che si tratta della peggiore invasione di locuste degli ultimi 70 nell’Africa orientale.

Il sindaco Simango aspira a dare vita al piano “Beira Back Better” che include sviluppare un sistema sanitario, migliorare le infrastrutture idrauliche e costruire scuole più sane. Questo è un obiettivo ambizioso: molti dei cittadini di Beira hanno perso queste strutture prima del ciclone. Simango dice che, fin qui, i donatori hanno impegnato il 25% del costo totale di 1 miliardo di euro.

Il ciclone Idai ci ha insegnato molte lezioni”, dice Carlos da Barca, di 47 anni, vice-amministratore di Dondo, un distretto al confine con Beira. “Abbiamo strumenti migliori per prevedere il meteo, modi migliori per informare i nostri cittadini. Ma questo è tutto quello che abbiamo: il potere di informare, non di rispondere”. Oggi, il Mozambico è ancora poco equipaggiato per evitare la catastrofe. Povertà, risorse scarse e mancanza di investimenti per combattere la crisi climatica continuano a minacciare milioni di vite. “Noi possiamo prevedere i cicloni con giorni in anticipo ma fornire allarmi tempestivi aiuta a salvare le vite solo se le persone hanno un altro posto dove trovare rifugio” dice il dottor Otto.

Le agenzie umanitarie discutono su come prepararsi ai disastri – sviluppare forti difese contro il peggio che sta per arrivare. Ci sono soluzioni di conservazione a bassa tecnologia: preservare i suoli, ripristinare le foreste, piantare mangrovie. Ma gli stati maggiormente inquinanti devono fare dei sacrifici per le nazioni maggiormente colpite. Il Fondo Monetario Internazionale ha detto agli stati più ricchi, che hanno avuto maggiori responsabilità finora, che devono fare di più per aiutare. “Il crescente aumento delle temperature ha effetti molto ineguali nel mondo, con un impatto più forte delle conseguenze avverse su coloro i quali possono permettersele di meno” fu detto nel 2017. E, ovviamente, nei nove mesi passati, la crisi climatica è fuoriuscita dall’agenda politica, è stata estromessa dal Covid.

Ho chiesto a Chiramswuana se ha mai avuto incubi sul ciclone Idai. “Io ho dei sogni” dice. Arrivano sempre quando è sveglia. “E’ come se vi fosse qualcosa che si sta riproducendo difronte ai tuoi occhi, come quando guardi la tv. Non mi piace. Ma sta lì, quello che è successo. “Non mi sento arrabbiata” dice. “Mi sento triste”. 

Traduzione di Marika Sottile e Filippo Parolin