C’era agitazione, a Beira, prima del 23 gennaio. Le previsioni dicevano che un altro ciclone avrebbe colpito il Mozambico centrale, e così è stato. Puntuale, la notte tra il 22 e il 23 gennaio, il ciclone tropicale Eloise ha sconvolto il Paese. Secondo l’ONU, sono state più di 300 mila le persone coinvolte nel ciclone. Più di 20 mila, invece, gli sfollati, ospitati in 31 centri istituiti sul territorio.
“Anche se è stato meno violento di Idai, il ciclone Eloise ha danneggiato infrastrutture che erano già state messe k.o.”, spiega Helder Domingos, responsabile della gestione dei rifiuti solidi urbani per il Consorzio Associazioni con il Mozambico (Cam), che ha sede a Trento e a Beira. Helder lavora nella sede di Beira e per due giorni, dopo il ciclone, non è riuscito ad andare dal fratello, perché l’acqua davanti alla casa del suo familiare era troppo alta.
Il vento ha raggiunto i 160 km/h, ma sono state le inondazioni il vero problema di Eloise, preceduto, il 30 dicembre, dal ciclone Chalane, di minori dimensioni. L’ufficio del Cam di Beira, che si trova al primo piano, ha subito delle infiltrazioni d’acqua.
“Persino le case più strutturate sono state danneggiate”, spiega Maddalena Parolin, responsabile della comunicazione del Cam di Trento.
Rispetto al marzo del 2019, le persone erano più preparate ad affrontare un ciclone, e avevano preso tanti piccoli accorgimenti che ne hanno attutito l’impatto. “Idai ha portato esperienza – dice Marica Maramieri, rappresentante di Paese del Cam -.
Mentre nel 2019 non si sapeva bene cosa sarebbe successo, in questo caso le persone si sono preparate”.
Le macchine sono state parcheggiate lontano dagli alberi, i tetti fissati con dei sacchi di sabbia alla struttura delle case. Anche la risposta all’emergenza è stata molto più rapida e pronta.
Il Cam ha lanciato una raccolta fondi su Go Fund Me per sostenere il Mozambico, e in particolare le squadre di volontari che aiutano a ripristinare i quartieri. Ci sarà tanto da lavorare sul fronte dei rifiuti solidi urbani. “Le strade sono piene di alberi caduti durante il ciclone – racconta Domingos – ma anche di materiali di costruzione e di coperture di zinco delle case, oltre ai rifiuti accumulati nelle discariche abusive”.
Nonostante la popolazione fosse relativamente preparata, le previsioni meteo, incerte fino all’ultimo, non hanno aiutato. “Dall’Italia controllavamo intensità e traiettoria del ciclone, ma cambiavano continuamente” – spiega Maramieri -.
Inizialmente si prevedeva che avrebbe colpito a sud, poi a nord, poi ancora a sud… E infine ha colpito Beira“.
Il distretto di Buzi è stato quello che ha subito più danni. “Visto dall’alto, era paragonabile al mare aperto”, spiega la rete di organizzazioni “Global Protection Cluster”.
“Ho dei vicini che hanno perso il tetto della casa, oppure l’abitazione stessa”, racconta Sofia Sola, responsabile della comunicazione del Cam a Beira.
“Sono riuscita a mettermi in contatto con l’Italia solo dopo quattro o cinque giorni, per via dei problemi di elettricità e di connessione, che in alcuni quartieri non sono ancora stati risolti”.
Sofia è una studentessa universitaria.
Spera di riprendere presto gli studi, ma teme che ci vorrà ancora tanto tempo. Le lezioni sono sospese per il Covid, che, se all’inizio pareva contenuto, da dicembre ha iniziato a diffondersi, anche a seguito dell’arrivo di turisti dal Sud Africa.
“Quando mi fermo a pensare vedo la conformazione di Beira, una città costruita sul mare – spiega -.
Quando vado in spiaggia, poi, mi rendo conto che piano piano l’acqua la sta risucchiando e mi domando se fra trent’anni la mia città esisterà ancora“. “Una preoccupazione – spiega Maramieri, che traduce dal portoghese all’italiano per noi – che è anche la preoccupazione che il ciclone porta con sé. La paura di morire, perché il ciclone potrebbe anche uccidere. C’è un costante timore per queste catastrofi naturali, che portano con sé conseguenze estremamente gravi”.