P1120711Christian Piana è un fotografo italiano ed educatore sociale che vive da molti anni in Brasile. Trascorrerà alcuni mesi a Caia per lavorare ad un suo progetto: un libro di racconti per ragazzi illustrato, tratto dalla tradizione orale in Mozambico. Gli abbiamo chiesto di raccontarci del suo avventuroso viaggio di arrivo.

Sono arrivato a Johannesburg la mattina del 13 gennaio, con l’intenzione di recarmi a Caia via terra: prendere un autobus sino a Maputo e da là uno sino a Caia, dove Marta e Claudia mi aspettavano al CAM.

Sono partito da San Paolo del Brasile, da dove avrei potuto comprare un biglietto per Beira, l’aeroporto più vicino al distretto. Ma ho scelto Johannesburg perché il biglietto è più economico e soprattutto perché ero sicuro che il restante tragitto, da fare via terra, mi avrebbe dato il tempo di immergermi più intimamente nel territorio e di diluire con calma le sensazioni. Così è stato.

Maputo mi pare bellissima, vivace, animata e molto più cordiale di Johannesburg, anche se ovviamente con i segni di povertà molto più tangibili. Mi affascinano molto i palazzi, i loro disegni che ricordano un influenza di stile coloniale con un’avanzo modernista, ma comunque scoloriti e assorbiti dal tempo.

Credevo di trovare una città moderna e “pulita” nelle grandi vie e di notare l’Africa, intendo l’Africa dei miei stereotipi, delle donne con i vestiti tradizionali che caricano bambini e grandi cesti sulla testa, delle baracche provvisorie costruite in legno, ecc… solamente usciti dalla grande città; ed invece quest’Africa è già presente al mio arrivo, è già gridante, è in tutte le strade.

La stazione dei pullman, in realtà è un grande piazzale dove ci sono veicoli di ogni sorta e condizioni, non ci sono sportelli d’informazioni, ne di vendita biglietti. Tutti sembrano conoscere tutto e mi si avvicinano velocemente per sapere dove vado e per vendermi il biglietto.

Io, che vengo da San Paolo, dove purtroppo la filosofia insicurezza e approfittarsi degli altri ormai è sempre più presente nelle relazioni tra gli uomini, ovviamente mi preoccupo e insospettisco: sono sicuro che mi vogliono fregare o addirittura derubare.

DSC_8841Invece mi vogliono dirigere onestamente verso il veicolo corretto. Chiedo al tassista che mi ha accompagnato se il tutto è sicuro e lui mi dice di si, che posso sempre andare in giro tranquillo. In realtà gli avevo già chiesto se è sicuro andare in giro per le strade di Maputo tranquillamente a fotografare, e lui già mi aveva risposto di sì, che è sicuro e che non mi devo preoccupare, io ne rimango sorpreso (a San Paolo nessuno ti risponderebbe di sì).

Questa sensazione di sorpresa rispetto alla non criminalità mi accompagnerà per tutto il viaggio.

L’autobus è stretto, scomodo e sovraffollato: ci sono persone sedute anche sul corridoio e io devo tenere il mio zaino sulle ginocchia. Sono esausto, è dal Brasile che non dormo. Decido di fermami nella città di Inhambane per riposarmi, scelta geniale.

Inhambane è una tranquillissima e charmosa cittadina sul mare dove la vita sembra scorrere lenta; li finalmente posso lasciare i miei zaini in una stanza di un piccolo hotel e passeggiare serenamente, passeggiare nel continente africano, uno dei miei sogni di sempre.

Vado al mercato e faccio delle foto, ma continuo a chiedere a tutti se è sicuro perché mi sembra così strano che io non debba in continuazione guardarmi intorno per vedere chi mi si avvicina. Ovviamente tutti mi rispondono che è tranquillo e io mi sento così inquinato da San Paolo, dall’insicurezza e dalla paura delle rapine, che m’intristisco e mi rendo conto che necessito di una pulizia interna… di una purificazione.

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Incontro persone, parlo con tanti ragazzi, prendo minivan collettive (chapas) per andare in giro, chiedo informazioni e tutti sono cordiali, sorridono, mi salutano, non sento ostilità, né diffidenza; questo mi aiuta nel processo di purificazione.

Da Inhambane prendo un altro autobus in direzione  Nampula, che si fermerà a Caia.

In questa tratta ci sono dei conflitti in corso: da qualche mese screzi tra la Renamo e la Frelimo hanno riportato sulla nazione l’instabilità politica e l’ombra tremenda della guerra. Tra Rio Save e Muxungue ci sono frequenti imboscate e attacchi con granate e colpi di mitra che coinvolgono anche veicoli civili; per questo la strada è scortata da una colonna militare.

Il nostro autobus si ferma, così come altri autobus, camion e macchine private. Sotto un albero ci sono dei militari che giocano facendo roteare gli ak47 tra le mani (!!). Aspettiamo per circa 5 ore l’arrivo della scorta militare, quando arriva la scena è surreale e mi ricorda immagini visto solo nei film: la strada si riempie di militari che scendono da camioncini anche di uso civile, non sembrano avere divise uguali e ufficiali, tutti sembrano usare accessori diversi a anche un po’ improvvisati, sembrerebbe un esercito paramilitare. Un soldato ha addirittura un vecchio elmetto di ferro di dimensioni sproporzionate, ci si potrebbe proteggere dalla pioggia in 3 o 4 li sotto. Sono tutti ragazzotti e hanno lo sguardo duro.

Camminano velocemente tra i veicoli e ci ordinano di salire, c’è chi ha fasce di proiettili arrotolate al corpo che strisciano per terra, c’è chi ha lanciagranate in mano e chi carica le granate come se stesse portando delle arance.

Quando la colonna parte, sull’autobus sono tutti seri e silenziosi, guardano in avanti, cercano di sbirciare oltre il parabrezza frontale, la musica è spenta, c’è un bambino che non smette di piangere, è l’unico rumore dell’autobus, l’atmosfera è densa e fuori c’è un bellissimo tramonto che ci si può godere attraverso i finestrini.

La nostra colonna passa senza problemi e attacchi, così rincomincia la musica a tutto volume e la gente torna a chiacchierare.

Arrivo a Caia il giorno dopo, verso le 8 del mattino, è venerdì e io sono partito la domenica (sono esausto).

La mia prima impressione, che ovviamente è immatura visto che non conosco ancora bene la realtà locale, è che la gente è spaventata da questo momento che tutti chiamano già guerra, ma non per l’effettiva dimensione dei conflitti, ma perché ha le dimensioni di un’ ombra inquietante che fa riaffiorare vecchie (ma non troppo) e terribili memorie. Non è il primo paese in conflitto che visito, e nella mia breve esperienza ho capito che la guerra non finisce mai, rimane viva anche se nascosta, rimane tra le esperienze che hanno formato il popolo, chiusa negli armadi, latente e pronta a impadronirsi di nuovo delle paure della gente.

La guerra non combina con le facce e la simpatia della gente che ho incontrato, con l’umore e la tranquillità che ho assaporato, questa guerra sembra non far parte di questo popolo, qualcuno sembra la stia inventando, la stia imponendo come una tassa da pagare.